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mercoledì 16 aprile 2014

I Percorsi Obbligati (racconto breve)


Fischietto qualcosa, in macchina. È mattina. Il rumore dell'aria sui finestrini ed i cigolii incurabili della mia auto rendono difficile anche solo ascoltare questo suono che esce dalle mie labbra.

"Che bel posto questa periferia industriale!".
Più mi guardo attorno e più non mi ritrovo, mi sento perduto, privo di significato. Dove sto andando? Sono fuori per lavoro, sono fuori dai miei pensieri, seduto sulla mia automobile, fermo, sempre più fermo... E più accelero e più mi sento immobile.

"Mi sono spinto lontano, questa volta". 

Lontano al punto da confondere ciò che penso con ciò che dico, ciò che sono con quello che ricordo di me stesso. Non penso più tanto al lavoro, penso e basta, così la mia vita scorre ogni giorno sotterranea dalla fonte alla foce.

"Ho conosciuto della gente tristissima, che lavorava ogni giorno senza potersi mai porre un traguardo brillante che non fossero le tende nuove, o cambiare TV o il frigorifero. Ed io che sogno di vivere d'arte...".

È l'ambizione che fa avanzare il mondo, dice un amico saggio. Non credo, rispondo, sono i sogni che generano ogni progresso, la lotta contro i limiti dell'immaginazione.
Che confusione! Un mercato di paese sulla mia strada.

"Ti vedo...".

Come deve essere vivere qui? Poter dire: io sono nato in un paese di mille persone

"Ti amo...".

È tutto sepolto nei ricordi d'infanzia, è tutto rinchiuso nel nostro cuore giovane, quello che si nutriva di illusioni. Ma è forse cambiato qualcosa, da allora? Non vivo ancora di illusioni, di attese ossessive per minime ricompense, di piccoli istanti di oblio assoluto?

"Ti guiderò...".
Non sono mai stato qui, eppure le facce mi sono familiari. Questo sole mi piace. Ma è soltanto una cornice stupenda e altrettanto vuota. Ed il quadro? Al quadro penserò il mese prossimo, con il nuovo stipendio. Sarò una persona con un quadro stupendo ed il sole come cornice.

Vedo le cose uscire dalla terra come parole da una grande penna ancora più folle e disadattata della mia.

"Ho sedici anni... ho diciotto anni... ne ho venti... trenta... quaranta".
Questo posto sono certo di averlo già visto, ricordo tutto nei minimi particolari: qualche anno fa, con mio padre, un sabato mattina...ma no, non è possibile: quella volta eravamo in collina...

"Ti ricorderai di me?".
Non so, mi sembra di avere lasciato qualcosa in questi luoghi.

"Hai mai sognato qualcuno già morto?"
Mi perseguita l'idea di non ricordare, di non ritrovare quel foglio con i miei propositi per il futuro.

"Non hai bisogno di me?".
Avrei voglia di pioggia, di chiudermi sotto un ombrello o qui in macchina o dentro un caffè a bere qualcosa di caldo e ridere, pensando a quante altre volte faremo lo stesso, insieme.

"Hai mai pensato all'amore?”
Si: avevo diciannove anni, volevo vivere d'arte. Volevo dire qualcosa, ma la penna non andava, avevo finito la carta o non so più che altro.

"Proprio non mi riconosci?"
Ho provato amore diverse volte per diverse donne, senza riuscire a dir loro niente che fosse inerente all'amore...forse questo mi ha risparmiato delle delusioni, ma non certo i rimpianti.

"Non vuoi più parlare con me?".
Benissimo, stiamo arrivando, preparati: aria disinvolta, quasi distratta e al tempo stesso capace di trasmettere la sensazione di essere completamente padrone della situazione. Buongiorno, mi dice questo tizio dalla faccia rossa e sorridente. Buongiorno, rispondo. Non è mai venuto qui da noi?. No, è la prima volta.

"Che cosa facciamo stasera?".
Seguo il sorriso del tizio che mi precede in un corridoio di polvere asfissiante. La cornice stupenda del sole filtra attraverso i fori della parete e scolpisce delle colonne di luce obliqua che si piantano al suolo con una solidità che travisa l'effettiva assenza di materia delle stesse. Ed io cammino attraverso quelle colonne e chiudo gli occhi.

"Sdraiamoci qui".
Si, incomincio a vedere qualcosa! Vedo dei rami...e delle braccia. Riapro gli occhi. Come ha detto? Se è molto che faccio questo mestiere? Si, forse.

"Hai mai letto Eluard?"
Non riesco più a seguire ciò che mi dice questo uomo, ho la testa altrove, sento delle voci dentro!

"Devi sapere tutto di me"
Non ho più coscienza professionale, ammesso che l'abbia mai avuta, non ho più coscienza di niente: debbo seguire il mio istinto. Cammino sulle lamiere contorte di una lavorazione astrusa, sono solo adesso. L'uomo dalla faccia violacea mi ha lasciato a "fare quello che devo". Ecco la mia arte a cosa mi ha condotto: a questa polvere insopportabile.

"Ti porto in un posto dove andavo da piccola con mio padre".
Non è possibile. Sento di essere in un luogo eppure sono in un altro, eppure qui a fianco c'è un prato proprio come quel prato, eppure quell'albero...ma era aperta campagna! Non può essere! Non sono così vecchio! Non sono cambiate tante cose!

Non riconosco più i luoghi, non riconosco gli odori. 

"Sdraiamoci qui".
Ma sì! Deve essere questo, per forza. La figura scura dell'albero controluce si incastra perfettamente con la sagoma vuota presente nella mia memoria. Non ho più dubbi e allora incomincio a correre. L'albero si avvicina, lo tocco, ci giro attorno e in quel preciso istante la vedo sdraiata con la schiena appoggiata al tronco dell'albero.

"Sei arrivato, finalmente!".

"Dio mio! Erano almeno due ore che ti sentivo parlare dentro di me! Ero certo che ti avrei trovata qui!".

"Finché esisterà quest'albero, noi saremo quest'albero ed io non mi muoverò di qui... Dove sei rimasto, tutti questi anni?"

"Ti ho cercata dappertutto. Ti ho pensata così intensamente che i tratti del tuo viso erano sfumati nei miei ricordi. Capisci? Non ricordavo più la tua faccia!".
"Dovrei sentirmi offesa o lusingata?".

"Lusingata, suppongo".

"Le tue certezze corrono sempre su questo tono, vero?".

"Sì, non riuscirò mai a cambiare...E tu cosa hai fatto in questi anni?".

"Ti ho aspettato, non ti ho cercato. Ero sicura che se saresti tornato, saresti tornato qui".

"Non ricordo più nulla...non ricordo quasi nient'altro che le parole di oggi".

"È un buon passo per ricominciare".

"Ricominciare cosa?".

"Lo chiedi tu a me?".

"Certo... Io... io sentivo questa voce che chiamava... Non sapevo da dove né perché, finche ho sentito dentro di me la presenza dell'albero e poi l'ho visto, ho corso e ti ho trovata, non so nient'altro".

"Hai ancora tanta paura?".

"Si, ho paura di riperderti, di non ritrovarmi più, di non essere più niente di diverso da ciò che fuggo. Ho bisogno di te, più di quanto tu non creda".
"Ti vedo...".

"Ti amo... ma ho troppa paura".

"Ti guiderò...".

"Tu non hai bisogno di me?".

"Come sarebbe possibile? Noi siamo una sola persona...".

Di fronte a me il cielo azzurro è macchiato da una nube grigia e dal fumo di una ciminiera. Delle ruspe scavano il terreno non lontano da qui. L'uomo dalla faccia violacea parla con un altro e mi indica. Un soffio di vento mi sposta i capelli. Chiudo gli occhi.

EPILOGO

Il tergicristallo spazza via i fiocchi di neve. I cigolii sono ovattati dall'oceano bianco. Sono ore che guido ma non riesco a trovare la strada. Gli indizi non mancano, ma tutto si confonde una volta di più. E adesso? La rosa che mi ero portato a chi la darò?

C'è un incidente e per evitare la coda svolto per la prima stradina che incontro. Si fa sempre più stretta e sbuca su un campo bianco di neve. Riconosco i muri, la ciminiera!

Scendo sotto la neve.

Mi guardo attorno ma non c'è niente, non c'è più traccia dell'albero.

Un soffio di vento mi fa cadere la rosa di mano. La guardo coprirsi lentamente di neve. Era questo il posto? Non so.

Chiudo gli occhi e ascolto il silenzio che resta sospeso tra il mondo e ciò che resta di me. 
Siamo solo l'amore che diamo. 

(AP - 1990)


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